Oggi visiteremo i bellissimi paesaggi naturali della Norvegia grazie a due fratelli: Michele e Carlo. Michele non manca sicuramente di humor, infatti è proprio lui a narrare le vicende davanti le quali si troverà insieme a suo fratello, raccontandole in maniera surreale e spassosa.
L’incanto dei meravigliosi luoghi naturalistici inaspettatamente ha lasciato anche lui per un po’ senza parole giusto per dare il tempo a noi lettori di vivere qualche minuto in una favola.
Il pallino di un giro in camper per la Scandinavia io e Carlo, fratello e socio-camperista, ce l’avevamo da parecchio. A malincuore, calcolatrice alla mano, convenimmo che la soluzione migliore sarebbe stata volare fino ad Haugesund e lì prenderne uno in affitto: il portafogli c’avrebbe ringraziato.
La mattina della partenza non fu incoraggiante, in verità; il “nostro” camper costretto in garage, il cielo minacciava piovaschi di fantozziana portata e al check-in ci fu tesa un’imboscata, ovvero una sovrattassa per peso di valigia sforato. Un consiglio: leggere attentamente le norme sui bagagli della Ryanair, sempre e col piglio di un notaio svizzero che ha molto tempo libero.
Offriranno pure prezzi concorrenziali, ma diamine, sono più fiscali di uno scontrino arrabbiato. Risolti i problemi di quei quattro chili che avrebbero minacciato l’assetto di volo – e con esso l’intero baricentro terrestre – atterrammo in una, strano a dirsi, fredda e plumbea Haugesund.
Affittare un camper lì fu inizialmente facile come scalare l’Everest in pantofole. Il tizio capiva d’inglese come io capisco di meccanica quantistica. Ci sbracciammo come due scimmie in procinto di annegare, esaurimmo tutto il dizionario di sinonimi e contrari italo-inglesi esistente e da inventare, prima di capire che quello era il padre, pescatore, del titolare.
Quest’ultimo invece, giunto poco dopo, avrebbe potuto dire ripetizioni private a Shakespeare e grazie a Dio riuscimmo ad accaparrarci un onesto joint E35 del 2006, 6 metri per 2, pannello solare da 100 watt (e mentre dice “pannello solare” guardo il cielo poi lui, cercando di capire se lo stesse dicendo per mestiere o perché in vena di sfottere), “operativo da soli 5 anni”, come giurò il solerte imbonitore. “Sì, a Baghdad”, commentò, nemmeno tanto sottovoce, Carlo.
Ad ogni modo estetica a parte, se usare la parola “estetica” in questo caso non fosse quantomeno avventato, lo prendemmo. Svolte le formalità burocratiche, con avvisi che suonavano tipo “in caso fumaste una sigaretta nel camper, la giustizia norvegese provvederà a buttarvi nell’Atlantico prima ancora che possiate telefonare a vostra madre” (gliel’abbiamo dovuto spiegare 4 volte e in 7 lingue indoeuropee differenti che non fumiamo), sistemammo coperte e vestiari, rifornimmo dispensa e frigo di alimentari dalle scritte sconosciute e dalle provenienze ancor più ignote e attendemmo il far del giorno.
1° GIORNO
E sorse il sole. Alle quattro meno dieci. Forse aveva più fretta lui che noi, di partire. Ad ogni modo, sciacquatura al gusto caffè, due cornetti dall’oscura confettura e rombo di motore. E appena usciti dalla città è cominciata. È cominciata una delle cornici più suggestive che in vita mia di camperista riesca a ricordare. È cominciata in sordina, senza far rumore, d’improvviso: una selva immensa e distesa di conifere a perdite d’occhio, dormiente in una coperta di cielo grigio-azzurro.
Ininterrotta e indifferente a noi, fino alla nostra prima tappa, uno spiazzo oltre Odda. Ci siamo rifocillati in un silenzio surreale e persino i nostri rumori erano attutiti, quasi il bosco si prendesse quei rumori per non disturbare i suoi ospiti animali. Il cielo, ora grigio, ora azzurro, era mutevole, capriccioso, incombente, sovrastante eppure lontano. Come gli occhi di Adriana.
Cambio guida e di nuovo dritti, addentrandoci nel cuore di quell’inquietante eppur sublime spettacolo che è la selva norvegese, in direzione Liliehammer. Da quelle parti, nuovo cambio di guida. Prima però cercammo ristoro in un autogrill che definire solitario è generosità gratuita, ingollammo qualcosa che Scully di X-Files avrebbe classificato come “pane, probabilmente”, accompagnato da un – questa sì – delizioso affettato di carne di renna.
Animale che avevamo già intravisto, durante quest’ultimo tragitto, e per il quale avevamo sfoderato macchine fotografiche e sentimenti di ammirazione. Buffo, lasciarsi affascinare da una renna e poi infilarla in un panino. Esistono più cose fra il cielo e la terra, Orazio…
Il freddo costrinse al rientro immediato nell’abitacolo, pena il congelamento. Carlo era in vena di guida e attraverso boschi a perdita d’occhio e sensazioni a perdita di memoria, giungemmo fin quasi a Orkanger. Parcheggiamo e ci apprestiamo ad affrontare la notte. Norvegese. Certo, è giugno, abbiamo pensato: sarà certo più freddo che in Italia… ma è pur sempre giugno. Ignari di ciò che ci avrebbe atteso.
2 ° GIORNO
Non ricordo bene l’ultima che ho abbracciato mio fratello. Forse fu proprio quella mattina. O almeno, così mi svegliai, abbracciato a lui. Sebbene i sentimenti per Carlo erano e sono di affetto e profonda stima, solitamente non esprimo a tal guisa il mio benvolere. Ma qui i sentimenti c’entrano come Biscardi centra i congiuntivi.
Faceva un freddo cane, anzi lupo. Decisamente, quel lenzuolino buono nemmeno per fare la parte del fantasma in una festa in maschera doveva essere rinforzato di un buon piumone. Che non avevamo. Entrammo a Orkanger e fatto l’acquisto, benedicendo ogni singola corona spesa per questo fine, riprendemmo il nostro tragitto verso il nord e verso noi stessi.
La prossima tappa era il parco di Byrkije, fino ai confini con la Finlandia. Naturalmente il camper era off-limits e parcheggiatolo al limitare del Parco, lì spendemmo l’intero giorno. Il sole a stento riusciva a segnalare la sua presenza oltre la pesante coltre grigio-azzurra del cielo nordeuropeo: il risultato era una strana visione, ossimorica, di chiara oscurità.
L’atmosfera che ne conseguiva era di placida ieraticità, di sacrale profondità che si temeva di disturbare anche con la sola presenza. La luce, o meglio, la stentata diffusione luminosa, inscenava ombre e giochi prospettici che trassero in inganno per millenni gli uomini, creando in questo modo e in questo mondo il suggestivo pantheon norreno, e bestie e animali fantastici ad esso correlato. La coperta piumata, quella notte, offrì al sonno un ristoro più degno nella sensazione inenarrabile del nessun luogo mondano.
3° GIORNO
Forse Adriana m’aveva visitato in sogno. Non saprei spiegare altrimenti il mio umore malinconico di quella mattina. Forse scientificamente c’era stato un tracollo di produzione di vitamina D, dovuta a mancanza di sole da più di 48 ore. O forse la Norvegia era Adriana e mi circondava.
Il motore del joint E35, proprio come noi, ebbe bisogno di risveglio e alimentazione prima di carburare. Ma fu tra noi, pronto per quest’ultimo giorno di viaggio.
A volte penso che io e Carlo organizziamo questi viaggi per parlarci. Abitiamo in due città distanti meno di cento chilometri, eppure pare vivere in due continenti differenti. Ufficio, mansioni, bollette, palestre, corsi di aggiornamento, computer, fax, sveglie, appuntamenti, agende. Ci si vede una volta al mese. E pensare che per quasi trent’anni abbiamo dormito nella stessa stanza.
Ad ogni modo, se questo vuol dire “Norvegia”, ovvero rubare allo schiavismo alcuni giorni per cullarsi nei ricordi, ben vengano cento Norvegie. Il viaggio in direzione Mo I Rana, le colonne d’Ercole del nostro programma, è tutto uno scorrere di ricordi e considerazioni. Su cosa ? Su tutto, senza logica, sulle nostre vite, senza un filo.
A Mo i Rana ci concedemmo un pasto degno di questo nome. Non ricordo d’aver mai assaggiato un salmone più gustoso di quello che mangiammo lì, facemmo fuori tre piatti in due, sembravamo due tagliaboschi che non mangiavano dai tempi della Omnitel.
Non ci facemmo mancare una visita a quella città che pur non vantando particolari bellezze storico – artistiche – architettoniche, era tranquilla e deliziosa. Restammo lì la notte. Il volo di ritorno sarebbe stato di lì a due giorni e nei nostri piani, opra, non c’era altro che rifare il percorso inverso e tornare a casa.
Così avvenne, senza particolari intoppi. Questa volta, quasi avesse cominciato a prendere confidenza e dialogare con le conifere nordeuropee, mi inquietarono di meno, la visione di queste mi diedero finanche qualche refolo addirittura di pace. O forse ero io semplicemente pronto ad accettarle. Forse il viaggio mi aveva già cambiato prima ancora che terminasse.